Galileo, Tycho e il principio di autorità


Nel seguente brano, tratto dal capitolo 5 de Il Saggiatore, Galileo critica duramente un paragrafo del trattato intitolato Libra astronomica ac philosophica, pubblicato a nome di Lotario Sarsi, pseudonimo usato dal gesuita Orazio Grassi e di cui il Sarsi si finge discepolo, con la non celata intenzione di distruggere l'autorità scientifica di Galileo, in odore di eresia per la sua adesione all'eliocentrismo copernicano.

L'oggetto della disputa scientifica era la posizione e la natura fisica delle comete: le comete sono astri, come le stelle e i pianeti, o fenomeni meteorologici come l'arcobaleno, i fulmini e le aurore boreali?

Galileo non considerava convincenti le teorie di Tycho Brahe. Per Tycho, giustamente secondo l'astronomia moderna, le comete erano veri astri come i pianeti, ma Galileo, non era disposto tanto facilmente ad accettare le teorie di Tycho anche perché rifiutava in generale il sistema ticonico (una via di mezzo tra eliocentrismo e geocentrismo), mentre il Padre Grassi, invoca l'autorità di Tycho per denigrare Galileo.

Galileo risponde che in campo scientifico non esiste nessuna autorità indiscutibile e che l'unica autorità è quella delle osservazioni dirette, della logica e della matematica. A questo proposito analizza varie dimostrazioni di Tycho che risultano sbagliate anche a chi possieda solo le più elementari nozioni di geometria piana.


Or legga V. S. Illustrissima:

"...detur, Tychoni illum adhaesisse. Quantum tandem istud est crimen? Quem potius sequeretur? Ptolemaeum? cuius sectatorum iugulis Mars, propior iam factus, gladio exerto imminet? Copernicum? at qui pius est revocabit omnes ab illo potius, et damnatam nuper hypothesim damnabit pariter ac reiiciet. Unus igitur ex omnibus Tycho supererat, quem nobis ignotas inter astrorum vias ducem adscisceremus." (*)...ammettiamo pure che il mio maestro abbia aderito a Ticone. Che gran delitto è questo? Chi altri seguire? Tolomeo? i cui seguaci Marte, diventato più vicino, minaccia alla gola con la spada sguainata? Copernico? ma chi è religioso allontanerà piuttosto tutti da lui, e un'ipotesi da poco condannata, ugualmente condannerà e respingerà. Solo tra tutti rimaneva Ticone perché lo potessimo prendere a guida per le vie ignote degli astri

...

Quello poi che dice il Sarsi, che nella scrittura del suo Maestro non vi si trova altro, in che egli abbia seguito Ticone, fuor che le dimostrazioni per ritrovare il luogo della cometa, sia detto con sua pace, non è vero; anzi nessuna cosa vi è meno, che simile dimostrazione. Tolga Iddio che il P. Grassi avesse in ciò imitato Ticone, né si fusse accorto, quanto nel modo d'investigar la distanza della cometa per l'osservazioni fatte in due luoghi differenti in Terra, si mostri bisognoso della notizia de' primi elementi delle matematiche (*)ignori le basi più elementari della matematica.

Ed acciocché V. S. Illustrissima vegga ch'io non parlo così senza fondamento, ripigli la dimostrazion ch'egli comincia alla fac. 123 del trattato della cometa del 1577, ch'è nell'ultima parte de' suoi Proginnasmi:

Figura 1

nella quale volendo egli provare com'ella non fusse inferiore alla Luna (*)Tycho, volendo provare che la cometa era più lontana della Luna per la conferenza(*)concordanza dell' osservazioni fatte da sé in Uraniburg e da Tadeo Agecio in Praga (*)misurandone la parallasse della cometa in base alle osservazioni fatte a Uraniborg e a Praga, prima, tirata la subtesa(*)corda AB all'arco dell'orbe terrestre che media tra i detti due luoghi, e traguardando dal punto A la stella fissa posta in D, suppone l'angolo DAB esser retto; il che è molto lontano dal possibile, perché, sendo la linea AB corda d'un arco minor di gradi 6 (come Ticon medesimo afferma) bisogna, acciò che il detto angolo sia retto, che la fissa D sia lontana dal zenit(*)il punto della volta celeste esattamente sopra alla testa dell'osservatore di A meno di gradi 3; cosa ch'è tanto falsa, quanto che la sua minima distanza è più di gradi 48, essendo, per detto dell'istesso Ticone, la declinazione(*)la sua altezza in gradi rispetto all'equatore celeste: in pratica la sua latitudine celeste della fissa D, ch'è l'Aquila o vogliamo dire l'Avvoltoio, di gradi 7.52 verso borea, e la latitudine di Uraniburg gradi 55.54.

In oltre egli scrive, la medesima stella fissa da i due luoghi A e B vedersi nel medesimo luogo dell'ottava sfera(*)nel medesimo punto della volta celeste, cioè la stella non mostra parallasse, perché la Terra tutta, non che la piccola parte AB, non ha sensibil proporzione coll'immensità d'essa ottava sfera. Ma perdonimi Ticone: la grandezza e piccolezza della Terra non ha che fare in questo caso, perché il vedersi da ogni sua parte la medesima stella nell'istesso luogo deriva dall'essere ella realmente nell'ottava sfera(*)realmente lontanissima rispetto ai pianeti, e non da altro; in quel modo a punto che i caratteri che sono sopra questo foglio, già mai rispetto al medesimo foglio non muteranno apparenza di sito, per qualunque grandissima mutazion di luogo che faccia l'occhio di V. S. Illustrissima che gli riguarda (*)i caratteri di questa pagina manterranno sempre la stessa disposizione reciproca da qualunque punto di vista si guardino: ma ben uno oggetto posto tra l'occhio e la carta, al movimento della testa varierà l'apparente sito rispetto a' caratteri (*)invece un oggetto posto tra l'occhio e la pagina apparirà in posizione diversa rispetto ai caratteri a seconda da dove lo si guarda, sì che il medesimo carattere ora se gli vedrà dalla destra, ora dalla sinistra, ora più alto, ed ora più basso; ed in cotal guisa mutano apparente luogo i pianeti nell'orbe stellato, veduti da differenti parti della Terra, perché da quello sono lontanissimi (*)i pianeti sono lontanissimi rispetto allo sfondo delle stelle fisse; e quello che in questo caso opera la piccolezza della Terra, è che, facendo i più lontani da noi minor varietà d'aspetto, ed i più vicini maggiore, finalmente per uno lontanissimo la grandezza della Terra non basti a far tal varietà sensibile.

Quello poi che soggiunge accadere conforme alle leggi de gli archi e delle corde, vegga V. S. Illustrissima quant'ei sia da tali leggi lontano, anzi pure da' primi elementi di geometria. Egli dice, le due rette AD, BD esser perpendicolari alla AB: il che è impossibile, perché la sola retta che viene dal vertice (*)radiale è perpendicolare sopra la tangente e le sue parallele, e queste non vengono altramente dal vertice (*)non sono radiali, né l'AB è tangente o ad essa parallela. In oltre, ei le domanda parallele, e appresso dice che le si vanno a congiungere nel centro (*)egli prima dice che sono parallele, poi dice che convergono nel centro: dove, oltre alla contradizzione dell'esser parallele e concorrenti, vi è che, prolungate, passano lontanissime dal centro.

E finalmente conclude, che venendo dal centro alla circonferenza sopra i termini dell'AB (*)tracciando i raggi dal centro agli estremi della corda AB, elle sono perpendicolari: il che è tanto impossibile, quanto che delle linee tirate dal centro a tutti i punti della corda AB, sola quella che cade nel punto di mezo gli è perpendicolare, e quelle che cascano ne gli estremi termini sono più di tutte l'altre inclinate ed oblique (*)questi raggi sono perpendicolari alla corda, e questo è del tutto erroneo, perché di tutti i raggi che intersecano AB solo quello che passa per il centro di AB è perpendicolare ad AB.

Vegga dunque V. S. Illustrissima a quali e quante essorbitanze(*)sciocchezze avrebbe il Sarsi fatto prestar l'assenso dal suo Maestro, quando vero fusse ciò ch'in questo proposito ha scritto, cioè che quello abbia seguitate le ragioni e modi di dimostrar di Ticone nel ricercar il luogo della cometa. Vegga di più il medesimo Sarsi quant'io meglio di lui, senza adoperar astrologia né telescopio, abbia penetrato, non dirò i sensi interni dell'animo suo (*)ho capito, non dirò le sue intenzioni, perché per ispiar questi io non ho né occhi né anco orecchi, ma i sensi della sua scrittura, i quali son pur tanto chiari e manifesti, che bisogno non ci è de gli occhi lincei (*)di lince, gentilmente introdotti dal Sarsi, credo per ischerzare un poco sopra la nostra Academia(*)l'Accademai dei Lincei, fondata nel 1603 da Federico Cesi, di cui Galileo era sicuramente il membro più importante; questa istituzione esiste ancora oggi. E perché e V. S. Illustrissima ed altri principi e signori grandi son meco a parte nello scherzo (*)poiché ella e molte altre persone importanti che ne fanno parte siete assieme a me derise dal Sarsi, io, per la dottrina di sopra insegnatami dal Sarsi, non curando molto i suoi motti, me la passerò sotto l'ombra loro, o, per meglio dire, illustrerò l'ombra mia col loro splendore.

Ma tornando al proposito, vegga com'egli di nuovo vuol pure ch'io abbia reputato gran mancamento nel P. Grassi l'aver egli aderito alla dottrina di Ticone (*)mi accusa di criticare il P. Grassi perché ha aderito alle teorie di Tycho, e risentitamente domanda: Chi ei doveva seguitare? forse Tolomeo, la cui dottrina dalle nuove osservazioni in Marte è scoperta per falsa? forse il Copernico, dal quale più presto si deve rivocar ognuno, mercé dell'ipotesi ultimamente dannata (*)dal quale tutti devono rifuggire perché le sue teorie sono state recentemente condannate dalla Chiesa?

Dove io noto più cose e prima, replico ch'è falsissimo ch'io abbia mai biasimato il seguitar Ticone, ancor che con ragione avessi potuto farlo, come pur finalmente dovrà restar manifesto a i suoi aderenti per l'Antiticonedel signor cavalier Chiaramonte; sì che quanto qui scrive il Sarsi, è molto lontano dal proposito; e molto più fuor del caso s'introducono Tolomeo e Copernico, de' quali non si trova che scrivessero mai parola attenente a distanze, grandezze, movimenti e teoriche di comete, delle quali sole, e non d'altro, si è trattato, e con altrettanta occasione vi si potevano accoppiare Sofocle, e Bartolo, o Livio.

Parmi, oltre a ciò, di scorgere nel Sarsi ferma credenza, che nel filosofare sia necessario appoggiarsi all'opinioni di qualche celebre autore, sì che la mente nostra, quando non si maritasse col discorso d'un altro, ne dovesse in tutto rimanere sterile ed infeconda; e forse stima che la filosofia sia un libro e una fantasia d'un uomo, come l'Iliade e l'Orlando furioso, libri ne' quali la meno importante cosa è che quello che vi è scritto sia vero.

Signor Sarsi, la cosa non istà così. La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l'universo), ma non si può intendere se prima non s'impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne' quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto.

Ma posto pur anco, come al Sarsi pare, che l'intelletto nostro debba farsi mancipio dell'intelletto d'un altr'uomo (*)la nostra intelligenza debba farsi schiava dell'intelligenza di un altro uomo (lascio stare ch'egli, facendo così tutti, e se stesso ancora, copiatori, loderà in sé quello che ha biasimato nel signor Mario), e che nelle contemplazioni de' moti celesti si debba aderire ad alcuno, io non veggo per qual ragione ei s'elegga Ticone, anteponendolo a Tolomeo e a Nicolò Copernico, de' quali due abbiamo i sistemi del mondo interi e con sommo artificio costrutti e condotti al fine; cosa ch'io non veggo che Ticone abbia fatta, se già al Sarsi non basta l'aver negati gli altri due e promessone un altro, se ben poi non esseguito.

Né meno dell'aver convinto gli altri due di falsità, vorrei che alcuno lo riconoscesse da Ticone: perché, quanto a quello di Tolomeo, né Ticone né altri astronomi né il Copernico stesso potevano apertamente convincerlo, avvenga che la principal ragione, presa da i movimenti di Marte e di Venere, aveva sempre il senso in contrario; al quale dimostrandosi il disco di Venere nelle due congiunzioni e separazioni dal Sole pochissimo differente in grandezza da se stesso, e quel di Marte perigeo a pena 3 o 4 volte maggiore che quando è apogeo, già mai non si sarebbe persuaso dimostrarsi veramente quello 40 e questo 60 volte maggiore nell'uno che nell'altro stato, come bisognava che fusse quando le conversioni loro fussero state intorno al Sole, secondo il sistema Copernicano; tuttavia ciò esser vero e manifesto al senso, ho dimostrato io, e fattolo con perfetto telescopio toccar con mano a chiunque l'ha voluto vedere (*)L'unico sistema che rende ragione della variazione delle dimensioni di Venere e Marte nei loro punti di minima e massima distanza dalla Terra, come chiunque può osservare con i migliori strumenti, è quello Copernicano. Il sistema di Ticone non può spiegare queste osservazioni.

Quanto poi all'ipotesi Copernicana, quando per beneficio di noi cattolici da più sovrana sapienza non fussimo stati tolti d'errore ed illuminata la nostra cecità, non credo che tal grazia e beneficio si fusse potuto ottenere dalle ragioni ed esperienze poste da Ticone (*)Il sistema copernicano non può essere accettato solo perché così ci impone la superiore sapienza della Chiesa, non certo per le obiezioni di Ticone, il cui sistema fa acqua da tutte le parti. Essendo, dunque, sicuramente falsi li due sistemi, e nullo quello di Ticone, non dovrebbe il Sarsi riprendermi se con Seneca desidero la vera costituzion dell'universo (*)Il sistema tolemaico è sbagliato, quello copernicano è condannato dalla Chiesa, quello ticonico non regge né alla matematica né alle osservazioni. Ma uno scienziato (cioè un filosofo) non può non desiderare di conoscere la struttura dell'universo. Ma ciò non implica, come maliziosamente insinua il gesuita, che Galileo si sia mai lamentato dell'autorità della Chiesa nei suoi tempi. E ben che la domanda sia grande e da me molto bramata, non però tra ramarichi e lagrime deploro (10), come scrive il Sarsi, la miseria e calamità di questo secolo, né pur si trova minimo vestigio di tali lamenti in tutta la scrittura del signor Mario; ma il Sarsi, bisognoso d'adombrare e dar appoggio a qualche suo pensiero ch'ei desiderava di spiegare, lo va da se stesso preparando, e somministrandosi quegli attacchi che da altri non gli sono stati porti. E quando pur io deplorassi questo nostro infortunio, io non veggo quanto acconciamente possa dire il Sarsi, indarno essere sparse le mie querele, non avendo io poi modo né facoltà di tor via tal miseria, perché a me pare che appunto per questo avrei causa di querelarmi, ed all'incontro le querimonie allora non ci avrebbon luogo, quando io potessi tor via l'infortunio.


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